giovedì 1 dicembre 2011

I timori della Difesa sul metallo del disonore

Dieci anni di commissioni di inchiesta e battaglie giudiziarie. L’inganno, sottile e perfido, sta nell’espressione «nesso di causalità». Tre parole che creano la burocratica rimozione di evidenze statistiche e di studi scientifici internazionali, archiviando il rapporto tra uranio impoverito e tumori del sistema emolinfatico in una indeterminatezza che stempera le responsabilità e consegna morti e sofferenze nella prigione della solitudine.
Le autorità militari resistono in questa impossibile trincea, nonostante i tribunali civili abbiano ormai decretato che i «principi di cautela e di responsabilità» e il «criterio di probabilità» fanno ormai giurisprudenza. Basandosi su questi parametri, infatti, i giudici hanno cominciato ad accogliere le richieste di risarcimento dei militari malati e dei familiari dei soldati deceduti. Ma nella lunga e torbida saga italiana del “metallo del disonore” i tentativi di frenare l’accertamento della verità e l’insabbiamento di scomode realtà non sono mai cessati.


Nel gennaio scorso, per esempio, il presidente della Commissione parlamentare sull’uranio impoverito (ed ex sottosegretario alla Difesa con il ministro Antonio Martino), il Pdl Rosario Giorgio Costa, ha cercato di inserire del decreto milleproroghe una modifica al decreto del presidente della Repubblica del 15 marzo 2010 che stabilisce le modalità di risarcimento ai militari e ai loro familiari: l’insorgenza dei tumori di Hodgkin non sarebbe più stata causata da polveri di guerra, ma da particolari problemi ambientali. Tra questi stress da guerra, vaccini, tatuaggi, radiazioni dei cellulari e fumo, non solo di sigaretta.
Insomma, un colpo di spugna, fortunatamente non riuscito. Poi c’è l’incertezza dei numeri. Sembra impossibile, eppure ancora oggi non esiste una statistica certa su quanti siano i militari colpiti da quella che ormai viene chiamata comunemente la “sindrome dei Balcani”.
La Difesa parla di 40-45 morti e di circa 200 malati, mentre le associazioni che tutelano i militari danno numeri diversi, paurosi: almeno 190 deceduti e circa 2.500 soldati ammalatisi di cancro. Soprattutto linfoma di Hodgkin e leucemie. Difficile non pensare che la “guerra dei numeri” abbia un preciso senso politico. Perché in qualche modo si ripete quanto accaduto con il nesso ci causalità. Cioè si contribuisce a rendere sempre indeterminati, incerti, i confini del fenomeno, stemperando drammaticità e responsabilità. Diverso l’atteggiamento delle forze armate statunitensi. Dopo la prima Guerra del Golfo gli americani, sulla base di ricorsi e di statistiche, presero le contromisure, fornendo al proprio personale militare strumenti di protezione e informando sui rischi connessi all’uranio depleto.
Tanto che, durante la missione “Restore Hope” in Somalia, nel 1993, le truppe statunitensi erano già dotate di tutti gli strumenti necessari per evitare le contaminazioni. «Sembravano dei marziani - aveva detto il maresciallo di Villamassargia, Marco Diana, ammalatosi di tumore - mentre noi stavamo in maglietta e calzoncini, esposti a tutte quelle strane polveri». Le autorità militari italiane, quando è esploso il “caso uranio impoverito” alla fine degli anni Novanta, hanno sempre negato di essere a conoscenza dell’utilizzo dell’uranio da parte degli alleati nei teatri di guerra. E tanto meno di sapere dei suoi effetti devastanti sulla salute.
Alcuni documenti, affiorati dal silenzio, li hanno però smentiti. Come i verbali di un incontro interforze a Napoli nel 1996. O l’ormai famoso documento della K-For Command West. O, per finire, la circolare Bizzarri del 1999, vero e proprio vademecum per i soldati per non restare contaminati dall’uranio. E per finire, Signum. È l’acronimo di Studio di impatto genotossico nelle unità militari, promosso nel 2004 sulla spinta dei risultati della Commissione Mandelli. Si tratta di uno studio su mille soldati-cavia nello scenario iracheno per studiare gli effetti dell’uranio depleto. Il generale Michele Donvito aveva rassicurato: «Avranno tutte le dotazioni di protezione». Obiezione dell’ex presidente della Commissione Difesa della Camera Falco Accame: «Ma se i soldati sono iperprotetti, a che serve lo studio? I risultati sono scontati: l’uranio impoverito non fa male». (Articolo di Piero Mannironi, La Nuova Sardegna, 29 Novembre 2011)