domenica 7 gennaio 2007

Quei militari italiani mandati in Kosovo allo sbaraglio

“L’uranio impoverito? Mai sentito parlare, né dai superiori, né se ne parlava tra di noi”. A dichiararlo a GrNews.it è un ex caporalmaggiore dell’Esercito, originario di Lecce, impegnato nella missione KFOR in Kosovo, precisamente a Pec, centro ad una quarantina di chilometri ad ovest di Pristina, dal maggio del 2000 all’ottobre dello stesso anno.

“Quando eravamo già sul posto – ricorda l’ex volontario in ferma breve – abbiamo effettuato dei briefing nei quali ci dicevano di non toccare le bombe semiesplose con le quali eventualmente ci saremmo trovati a contatto, ma nulla di più. Per quanto riguarda le protezioni avevamo solo l’obbligo di portare al seguito la maschera NBC (che non protegge dalle polveri sottili ndr) da indossare in caso di attacchi chimici.”

Date e luoghi sono importanti, perché, secondo dati forniti dalla Nato, in tutta la regione kosovara furono esplosi 31.000 proiettili all’uranio impoverito, ma questo, per i nostri militari, era un tabù.

Eppure, pochi mesi prima, il 22 novembre del 1999 il colonnello Osvaldo Bizzari dell’Esercito Italiano aveva firmato le norme emanate dalla Forza Multilaterale che prevedevano l’utilizzo di tute, maschere e occhiali per proteggersi dalle polveri sottili dell’uranio impoverito. Le stessa norme che gli americani avevano adottato in Somalia a partire dal 14 Ottobre del 1993. Nelle disposizioni si dichiarava inoltre che "inalazioni di polveri insolubili di uranio impoverito sono associate nel tempo con effetti negativi sulla salute quali il tumore e disfunzioni nei neonati".

Dopo quasi un anno di distanza quindi quelle norme restarono solo sulla carta. Un tempo troppo lungo da giustificarsi con l’assenza di rifornimenti. Perchè non furono adottate?


Francesco PALESE