sabato 2 febbraio 2008

LA LUNGA LETTERA AL MINISTRO PARISI

Al Ministro della Difesa
On. ARTURO PARISI

p.c. Sen. LIDIA MENAPACE
Presidente Commissione Uranio Impoverito
del Senato


On. Ministro,
ho avuto modo di ascoltare la Sua Audizione presso il Senato in data 6 dicembre 2007 e ho annotato alcuni argomenti sui quali mi permetto di dissentire, ma anche qualche argomento su cui concordo. In attesa di poter leggere il testo scritto della Sua relazione, Le espongo qui di seguito alcune considerazioni, partendo dai punti con cui concordo.

Libano, zona a rischio uranio impoverito.
Il primo aspetto positivo riguarda il fatto che Lei include ora il Libano fra le aree a rischio da uranio impoverito, insieme ad altre aree considerate a rischio di uranio, come i Balcani, l’Afghanistan e l’Iraq. Fino ad ora ciò non era stato ammesso (vedi, in merito, ad esempio, le risposte ad una interrogazione del 9 novembre 2006 dell’On. Tana De Zulueta e vedi anche la risposta dello Stato Maggiore in relazione al quesito posto dal COCER nel febbraio 2006. Entrambi questi riferimenti sono reperibili nel sito vittimeuranio.com).
Come ben si sa nelle grandi discariche esistenti in Libano, si trova materiale danneggiato (come, ad esempio, mezzi rotabili) del quale non si può escludere che sia stato colpito da armi all’uranio impiegate da Israele. Israele è, infatti, dotato di armi all’uranio fin dagli anni ’80 e, in particolare, è possibile che queste armi siano state usate per colpire i bunker (dove gli Exbollà conservano i missili), nonchè mezzi corazzati. Per inciso, si è avuto il sospetto che gli israeliani abbiano venduto un lotto di 5.000 proiettili all’uranio impoverito all’Italia nel 1985, il lotto IMI-1-185 (vedi su questo, ad esempio, articoli su ‘Il Tempo’ del 10 e del 13 febbraio 2001).
Osservo, peraltro, dovendosi considerare il Libano come una zona a rischio, che era doveroso ordinare ai nostri militari di applicare idonee misure protettive (ad esempio, maschere antiparticolato e non maschere antigas, assai scarsamente efficaci in questa situazione).
Il 2 giugno è rientrato, in aereo dal Libano, un militare di Catanzaro che è stato poi ricoverato al Celio e successivamente all’IFU, con la diagnosi di un probabile tumore. Ma su questa vicenda è caduta una coltre di silenzio.

Raccolta centralizzata dei dati.
Il secondo aspetto positivo è nella Sua affermazione di voler, finalmente, raccogliere dati sufficientemente completi istituendo una forma di centralizzazione. Mi preme, però in proposito osservare che questa decisione avrebbe dovuto essere stata presa, quantomeno, all’epoca in cui venne istituita la Commissione Mandelli. In proposito, l’ANAVAFAF sostenne, fin dai primi casi che si erano verificati (Vacca, Colombo, Antonaci, Di Giacobbe), che era necessario individuare sui documenti caratteristici del personale, reperibili nei Distretti Militari come pure nei Dipartimenti Marittimi, tutti i casi di patologie sospette. Purtroppo i Dipartimenti Marittimi sono stati del tutto ignorati, dimenticando che, ad esempio, il personale del S. Marco dipende dalla Marina e quindi fa capo ai Dipartimenti Marittimi. Al S. Marco apparteneva ad esempio, il Capitano di Corvetta Crescenzo D’Alicandro, ammalatosi in Somalia e in seguito deceduto, e il Capitano di Fregata Stefano Cappellaro, recentemente deceduto a Brindisi). E ciò tenendo presente che non erano in questione solo tumori, come erroneamente è stato scritto anche nell’articolo 26bis della legge relativa ai risarcimenti, che esclude dalle patologie di tipo neurologico quelle relative, ad esempio, alla sclerosi multipla o di tipo genetico, da cui deriva la nascita di bambini malformati. Questa questione è dimenticata anche nella Sua relazione del 6 dicembre u.s..
All’epoca della Commissione Mandelli, l’ANAVAFAF insistette affinchè il Ministero della Difesa emanasse una direttiva scritta a tutti i Comandi terrestri e mobili dipendenti delle Forze Armate, rendendo nota l’iniziativa anche alle amministrazioni non militari che avevano impiegato personale nei luoghi di possibile contaminazione (così come la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’Interno, il Ministero degli Esteri, il Ministero della Salute, la Protezione Civile e il Ministero del Tesoro (da cui dipende la Guardia di Finanza), affinchè queste amministrazioni dello Stato comunicassero tutti i dati relativi a casi di possibile contaminazione.
In proposito, l’accentramento dei dati, essendo coinvolto non solo personale della Difesa ma anche di altre Amministrazioni, ritengo che dovrebbe essere attuato presso la Presidenza del Consiglio e non solo presso il Ministero della Difesa.
L’ANAVAFAF intervenne, anche, presso il Ministero della Difesa affinchè non desse corso all’ordine che era stato emanato al Distretto di Roma per la distruzione di documenti riferentisi ad anni passati, relativi al personale. Il motivo addotto era che venivano considerati come ingombranti.
Ora, per rintracciare documenti che risalgono al personale impiegato nella Guerra del Golfo del 1991, in Somalia nel 1993, in Bosnia e in altri Paesi Balcanici dal 1994 e nei poligoni da data antecedente gli anni ’80, occorre un laboriosissimo lavoro che richiederà certamente molti anni. Qualsiasi commissione di studio non potrebbe, così, iniziare i suoi lavori che in tempi molto lontani da oggi. Si tratta di ricostruire preliminarmente le “storie personali” delle singole persone per stabilire se abbiano operato in località contaminate, e se siano state, o meno, protette dagli appositi indumenti, e possano essere considerate “soggetti a rischio”. Da osservare che nel 1977 erano state eseguite, nel poligono dell’Aeronautica USA, in Florida, il poligono di Eglin, le prove di penetrazione di proiettili all’uranio e si era individuata la emissione di nano particelle.
Nei poligoni, soprattutto ditte straniere hanno eseguito sperimentazioni con armi non convenzionali. Il primo caso che destò sospetti fu quello di Roberto Michelini (1977) che era stato impiegato nel poligono di Salto di Quirra, dove raccoglieva residuati di armi e munizioni senza misure di protezione. Per il caso di Roberto Michelini il Tribunale di Venezia ha riconosciuto ai genitori degli indennizzi. E poi, sempre nei poligoni, il caso di Giuseppe Pintus che si ammalò nel 1991 e morì nel 1994 ed era stato destinato al poligono di Teulada. Tra l’altro, questi aveva dichiarato di aver assistito, nel poligono, a sperimentazioni relative alla possibilità di perforazione di corazze e fortificazioni.

Rischi nelle missioni nel Golfo Persico (1991) e Somalia (1993)
Un forte campanello d’allarme vi è stato per le operazioni in Somalia, dove il nostro personale ha operato, date le alte temperature, in calzoncini corti e canottiera e, in caso di operazione a fuoco, con il giubbotto antiproiettile, mentre i reparti USA hanno operato con le tute di protezione anche a 40°C all’ombra. Alle richieste del personale circa questa stranissima differenza di abbigliamento, veniva risposto, come hanno riferito molti reduci, che il personale USA era “fanatico”.
Credo che non fosse nemmeno necessario ricorrere ai Servizi Segreti, pur ampiamente presenti in Somalia, per conoscere i veri motivi per cui gli USA avevano emanato norme rigidissime di protezione, fin dal 14 ottobre 1993 e le avevano applicate con estremo rigore. Gli USA, avevano inoltre preparato dei filmati didattici (uno di questi è stato ritrasmesso anche da una rete televisiva italiana, qualche anno or sono), nel quale si illustravano i pericoli dell’uranio impoverito e si spiegava quali disposizioni bisognava adottare per proteggersi.
Ma anche nella Guerra del Golfo del 1991 aveva operato personale italiano. E vi sono stati, in proposito, anche casi di malattia e di morte. Alcuni casi di morte sono riportati nel Dossier sull’uranio impoverito curato dall’ANAVAFAF.
E’ dunque assolutamente sbagliato iniziare i conteggi dal 1996 perchè, così facendo, si trascura volutamente quanto è accaduto in precedenza, fornendo una grave disinformazione all’opinione pubblica.
In particolare, va tenuto presente che per almeno sei anni i nostri militari (e anche i civili) non hanno adottato le norme di protezione. Tali norme (l’uso di tute, occhiali, maschere e guanti), peraltro, è bene non dimenticarlo, erano già state fatte conoscere dalla NATO all’Italia nel 1984. Dunque, ancor prima che nel 1993, le norme fossero implementate dagli USA in Somalia.

“Missione” non vuol dire “esposizione”
Molto grave è il persistere nel grossolano errore (errore che l’ANAVAFAF ha segnalato nel corso di questi anni numerosissime volte da quando è stato presente negli studi della Commissione Mandelli), l’errore cioè di considerare il numero dei casi di personale inviato in missione uguale al numero dei casi di personale esposto. Molto diverso è, infatti, il numero delle missioni rispetto a quello del personale realmente esposto e di personale ammalatosi. Ad esempio, per quanto riguarda il personale in missione, vengono prese in considerazione tutte quelle persone che hanno operato sui mezzi di trasporto aereo in servizio tra Italia ed estero. Tali mezzi, molto di sovente, in uno stesso giorno arrivano all’aeroporto di destinazione all’estero, vi portano delle persone e vi depositano del materiale, e poi tornano in Italia senza che il personale sosti in prossimità di obiettivi colpiti. Questo personale non dovrebbe, quindi, essere considerato come “soggetto a rischio”.
Inoltre, molto personale “in missione” è destinato a Comandi o Direzioni, magari amministrative, distanti dai luoghi in cui sono state gettate armi all’uranio. Forse una persona su cinque di quelle in missione è da considerarsi esposta a rischio di contaminazione. E tra chi opera in zone contaminate (in Italia o all’estero) occorre indicare chi ha applicato o meno le misure protettive, non potendosi considerare queste “a rischio” come quelle non “protette”.

Storie personali
Comunque, per fare dei conteggi, occorre poter conoscere, come sopra accennato, chi sono le singole personale coinvolte, occorre insomma, sapere se queste singole persone abbiano operato in luoghi che presentavano pericoli e se, queste persone, indossavano o meno il materiale protettivo. Ma a tal fine occorre rintracciare, negli archivi dello Stato Maggiore, le “storie operative” che i reparti hanno consegnato agli archivi stessi. Purtroppo anche qui si tratta di un lavoro certamente di non breve durata e, naturalmente, copre solo il campo dei militari in servizio e non il campo civile, nè quello dei militari in congedo. Per queste ultime categorie, è ancora più difficile, in mancanza delle “storie” relative all’impiego sul campo, ricavare dei dati attendibili. Ma nulla in questo senso, almeno per quanto è a conoscenza dell’ANAVAFAF, è stato fatto finora.
Quando si parla di numero delle missioni, occorre specificare i nominativi di chi ha eseguito ciascuna missione, perchè può darsi che una stessa persona abbia eseguito numerose missioni (magari anche quaranta o più missioni, come ad esempio è il caso del Tenente Colonnello della Croce Rossa Emerico Laccetti).

I civili, del tutto dimenticati
Non si fa cenno a casi di civili, molti dei quali sono stati particolarmente esposti. Cito, ad esempio, il caso del Prof. Giovanni Caselli (deceduto), inviato nella ex Jugoslavia da parte della Presidenza del Consiglio e tra i cui incarichi era quello di verificare la abitabilità di case colpite da bombardamenti da parte di aerei della NATO e quindi da armi all’uranio. Si tratta di un incarico ad alto rischio. Cito anche il caso del Capitano Antonio Caruso, del SISMI (militare, operante però in funzione di civile nell’Intelligence), anch’esso alla dipendenza della Presidenza del Consiglio, inviato in Somalia e successivamente ammalatosi e poi deceduto. Detto personale ha operato senza misure di protezione.

Chi è “soggetto a rischio”
In relazione a questi casi, naturalmente, per poter effettuare dei conteggi che abbiano un significato concreto, occorre preliminarmente stabilire una definizione (valida per ogni caso) circa che cosa significa essere un “soggetto a rischio”. Una definizione in questo senso è stata formulata dal Col. Fernando Guarnieri, nelle norme di sicurezza per la Folgore, emanate l’8 maggio 2000. Infatti, se non si stabilisce chi è da considerarsi “soggetto a rischio”, nessuna valutazione ha senso. Ovviamente, se si considera “soggetto a rischio” una persona che ha operato nella prossimità del pericolo (ad esempio all’interno di un casamento colpito o entro un raggio, ad esempio, di 50 metri da un obiettivo distrutto), non si può considerare “soggetto a rischio” una persona che ha operato magari a 10 Km o più, di distanza, da un qualsiasi obiettivo colpito. Ecco perchè, come sopra accennato, un gravissimo errore che è stato compiuto, è quello di aver considerato tutte le persone recatesi in missione, come persone “soggette a rischio”, assumendo questo numero come il denominatore di una frazione al cui numeratore veniva posto il numero del personale da considerarsi contaminato (ammalato).

Parzialità dei conteggi
E’ bene, comunque, non dimenticare che stiamo parlando (nei conteggi finora eseguiti) solo di casi di militari in servizio e che abbiano eseguito missioni all’estero. Ma c’è anche del personale militare che ha effettuato missioni in Italia, nei poligoni e personale militare che è stato destinato (nel senso di “assegnazione fissa”) nei depositi e nei poligoni. E dunque, è stato preso in considerazione, solo un aspetto del fenomeno che è assolutamente parziale anzichè l’aspetto globale del fenomeno, fornendo così una falsa indicazione in proposito.
Ad esempio, è stato escluso dai conteggi, come sopra accennato, personale del SISMI, ma anche personale della Polizia dipendente dal Ministero dell’Interno, della Guardia di Finanza, dei Vigili del Fuoco, personale destinato a sedi diplomatiche all’estero, personale volontario delle ONG che hanno partecipato ad operazioni all’estero. Non sono stati forniti dati su tutto questo personale e quindi, nelle pur diversificate cifre che circolano in merito, si continuano a conteggiare solo i militari in servizio dimenticando perfino i militari in congedo.
Altro grave errore nei conteggi, è costituito dal fatto di aver incluso in un’unica classe (ad es. nelle Relazioni Mandelli) sia il personale che prima del 22 novembre 1999 aveva operato sicuramente senza alcuna misura di protezione, sia il personale che dopo il 22 novembre 1999 avrebbe dovuto operare, almeno stando agli ordini, con le misure di protezione. Si tratta di due classi eterogenee tra loro, che devono essere trattate in modo separato l’una dall’altra. Altrimenti si rientra in quella metodologia statistica sbeffeggiata da Trilussa!

I tumori: le uniche patologie considerate
Sono stati presi in considerazione, come sopra accennato, solo i casi di personale militare affetto da tumori e non i casi di personale affetto da altre gravi patologie come la sclerosi multipla (per fare un esempio vedi quello di Carmine Pastore a Potenza) e personale ammalatosi di patologie genetiche a cui sono nati dei bambini malformati. Ma anche personale affetto da altre patologie (vedi il Capitano Carlo Calcagni affetto da una grave patologia al fegato che, proprio recentemente, all’Ospedale Militare di Taranto è stata riconosciuta tale da doversi concedere per essa, addirittura, il massimo grado di invalidità).

Gli indennizzi - Causa di servizio e Legge 308/81
E’ assolutamente inaccettabile che non venga applicata la Legge 308/81 (e sue modifiche nella legge 280/91) in base alla quale deve essere concessa una speciale elargizione (che era stata fissata nel 1977 in 50 milioni di vecchie lire, corrispondenti attualmente alla misera somma di 25.000 euro). Questa legge non richiede, è bene tenerlo presente, che venga concessa, per gli indennizzi, la causa di servizio. Infatti, la legge 308/81 richiede che il risarcimento venga concesso, con riferimento al personale militare in continuità di servizio, in una situazione di grave infortunio (tale è, certamente, ad esempio, un tumore, una infermità compresa negli elenchi delle tabelle A e B delle disposizioni legislative sulle pensioni di guerra).
Se per le vittime di possibile contaminazione da uranio impoverito non è stata concessa la speciale elargizione (pensiamo ad esempio al caso dei genitori dei militari Valery Melis e Fabio Porru), questa deve invece venire concessa. E si deve indagare perchè invece non è stata concessa e accertare eventuali responsabilità.
Da osservare che, in qualche caso (ad esempio quello riguardante le vittime di Nassiriya), la speciale elargizione è stata concessa e addirittura non nella somma di 25.000 euro. Infatti, con una speciale “leggina ad hoc” è stata portata alla cifra di ben 200.000 euro. Ed è stata così commessa una gravissima ingiustizia dividendo le vittime del dovere in vittime di categoria A e B, in certo modo in vittime da ostentare e vittime da nascondere.
E’ del tutto errato, dunque, il non far riferimento alla suddetta legge 308/81. Da segnalare, inoltre, per quanto riguarda la “causa di servizio”, che non vengono definiti dei criteri fissi per i quali viene concessa o negata. Tanto che è accaduto, in moltissimi casi, che mentre la Commissione valutativa di I Grado del Ministero della Difesa avesse stabilito la concessione degli indennizzi, la successiva Commissione, alle dipendenze del Ministero del Tesoro e dell’Economia, l’abbia invece negata.
C’è da chiedersi, in proposito, se in materia sanitaria la Commissione del Tesoro abbia più titoli per giudicare (come una specie di Corte di Cassazione), rispetto alla Commissione Medica alle dipendenze del Ministero della Difesa!
Saltando a piè pari la legge 308/81, ci si è riferiti ad altre disposizioni (ce n’è, attualmente una selva), come ad esempio il D.P. 243 del 2006, nella compilazione del quale, guardando alla lista dei riferimenti a cui la legge si rifà, manca non a caso, forse, proprio il riferimento alla legge fondamentale, la citata legge 308/81 attualmente in vigore e che prevede, come data di partenza per i risarcimenti, il 1° gennaio 1969. Molto grave sembra questa omissione del principale riferimento legale per gli indennizzi nella normativa del 2006! Chi ha volutamente omesso di citare la legge 308/81?
Tanto per fare un esempio, non si capisce perchè, per i casi Melis e Porru sopracitati, non sia stata applicata la legge 308/81 e sia stata, invece, concessa una pensione di euro 258 mensili ai genitori. In altri casi, come quello dei militari di leva Maurizio Serra e Gianni Faedda, entrambi impiegati abusivamente nella raccolta a “mani nude” di bossoli e residuati bellici nel poligono di Capo Frasca in Sardegna (la raccolta di questo materiale dovrebbe essere affidata a personale specializzato del Genio), il risarcimento è stato di euro 0. Né sono state svolte indagini, al fine di individuare perchè il personale abbia operato nella raccolta di residuati bellici senza adeguate misure di protezione.

Il balletto delle cifre relative agli ammalati
E’ del tutto inspiegabile come si possa essere passati, nel breve volgere di due anni, dalla cifra indicata dal Ministero della Difesa alla Commissione Senatoriale di Inchiesta presieduta dal Sen. Paolo Franco nel 2005, di 158 casi di tumore complessivamente registrati (naturalmente sempre nel ristretto campo dei militari in servizio), alla cifra di 1.702 recentemente resa nota dal Ministero della Difesa. Cifre, tra l’altro, come sopra detto, che non tengono conto del personale che ha partecipato alle missioni del 1991 (Guerra del Golfo), 1993 (Somalia), 1994 (Bosnia), in quanto i conteggi partono, in modo del tutto arbitrario, dal 1996 e inoltre non tengono conto né dei civili, né dei militari in congedo e riguardano esclusivamente la patologia tumorale. Sono, dunque, “ontologicamente” incomplete e fuorvianti.
Oggi si leggono anche cifre come quella dei 1.991 casi resa nota dal GOI (il Gruppo Operativo Interforze alla dipendenza della Sanità Militare), comunicata alla Commissione di Inchiesta Senatoriale presieduta dalla Sen. Menapace. In sostanza, si è passati in brevissimo tempo, da un numero a due cifre (44 casi della Commissione Mandelli), a numeri addirittura a quattro cifre. Quindi di ben altro ordine di grandezza! Come è stato possibile tutto questo?
Alla luce di quanto sopra, il numero di 44 casi della III Relazione della Commissione Mandelli sembra a dir poco, enormemente riduttivo rispetto a quello reale esistente all’epoca. Sembra quindi importante cercare di capire,alla luce di quanto oggi emerge, soprattutto dopo le indagini finora compiute dalla Polizia Giudiziaria, quale presumibilmente fosse il numero reale dei dati da considerare da parte della Commissione Mandelli. Questo, forse, è possibile fare applicando il teorema di Bayes (vedi allegato).
Se oggi, finalmente, si riuscirà a stabilire, almeno per quanto riguarda il personale militare che ha prestato servizio, una cifra attendibile per i casi di possibile contaminazione in Italia (operazioni nei poligoni, nei depositi e nel recupero di armi cadute in mare (quindi non esplose ma semplicemente ossidate - vedi allegato), oltrechè nelle missioni all’estero comprendenti anche quelle nella I Guerra del Golfo e in Somalia), forse è possibile una revisione dei risultati della Commissione Mandelli, Commissione i cui lavori, purtroppo, erano stati affetti anche da errori di metodo. Tanto per citarne due: a) l’adozione della distribuzione probabilistica di Gauss al posto di quella di Poisson; b) la inclusione, in un’unica classe, del personale non protetto e del personale protetto.
Naturalmente, è bene ribadirlo ancora una volta, anche il lavoro della Commissione Mandelli riguarda pur sempre la sola componente militare del personale in servizio della Difesa e quindi omette tutta la componente civile e dei militari in congedo. Così come omette il personale impiegato nei poligoni in Italia e nelle missioni del Golfo Persico e della Somalia, ed anche il personale impiegato in Macedonia e Albania, in quanto prende in considerazione (in rapporto ai Balcani), solo i militari impiegati in Bosnia e Kossovo. E dunque resta comunque una valutazione assai parziale del fenomeno che non può e non deve essere confusa, come purtroppo continua ad avvenire con la visione globale del fenomeno.
Ad esempio, quando si afferma, oggi, che la contaminazione da uranio può aver causato 77 morti (per inciso: si è passati dai 18 dell’epoca Mandelli ai 37 dell’ottobre scorso, ai 77 con un continuo raddoppio nel numero), si dà un’idea della vaghezza ed indeterminazione dei dati su cui basarsi. A parte ciò non va dimenticato che la cifra di 77 non prende in considerazione il personale civile e nemmeno quello delle Forze dell’Ordine, oltrechè tutto il personale che ha operato prima del 1996 e ancora una volta, va ripetuto, prende in considerazione solo i tumori e trascura tutte le altre patologie. Si provoca, in sostanza, fornendo in maniera critica questi dati, una grave disinformazione dell’opinione pubblica.

Chi deve pagare per i risarcimenti
Nella Finanziaria del 2007, è stata inclusa una cifra di 170 milioni di euro per risarcimenti, comunque relativi solo ai casi di tumore, dimenticando che esistono anche altre gravi patologie. Peraltro, in relazione alla cifra precedentemente stanziata di 10 milioni di euro, non si sa ancora chi abbia potuto godere dei risarcimenti e basandosi su quali criteri. Nessuna notizia in merito è stata fornita ma, ad oggi (almeno a quanto a conoscenza dell’ANAVAFAF), questa somma non è stata utilizzata. Non va dimenticato che il nostro personale è morto per “fuoco amico” degli aerei NATO e dei missili da crociera, oltreché per non aver, in larga misura, tempestivamente adottato le misure di protezione.
Per quanto riguarda le responsabilità del “fuoco amico”, c’è da chiedersi se sia giusto che i cittadini italiani siano chiamati a pagare i 170 milioni messi in bilancio per i bombardamenti effettuati da altri Paesi in teatri all’estero, soprattutto gli USA e la Gran Bretagna, con armi all’uranio nelle operazioni della NATO.
Per quanto riguarda gli indennizzi alle persone, come sopra accennato, questi indennizzi, in molti casi, sono stati di 0 euro (ad esempio per quanto riguarda i militari sardi Maurizio Serra e Gianni Faedda, ammalatisi e deceduti dopo essere stati posti in congedo). In altri casi (come quello dei genitori dell’Alpino Valerio Campagna) gli indennizzi sono stati di 17.000 euro, o come nei citati casi dei genitori dei militari Melis e Porru sono stati di 258 euro di pensione mensile.
Da notare che in altre situazioni l’Italia è stata molto generosa. Ad esempio, nel caso del Cermis (il drammatico incidente della funivia colpita da un aereo USA), l’Italia con una decisione presa dalla Commissione Difesa della Camera, stabilì un risarcimento di 76 miliardi di vecchie lire, circa 2 milioni di dollari per ciascuna vittima. Il “fuoco amico”, o meglio “l’impatto amico” dell’aereo USA sulla funivia fu pagato dall’Italia senza che alcuna responsabilità venisse addebitata all’aereo USA che aveva procurato il danno, sia pure in concorso con errate disposizioni del percorso di volo, responsabilità questa dei Comandi italiani, che non avevano tenuto conto della quota minima a cui potevano volare gli aerei (quota minima che, peraltro, venne comunque violata dall’aereo USA che scese anche al di sotto di questa quota minima). Nei casi dei risarcimenti alle vittime di Nassirya è stata concessa una speciale elargizione di 200.000 euro.

Trasparenza/Intrasparenza
Mi permetto di dissentire sulla affermazione che, da parte italiana, vi sia stata sempre la massima trasparenza su tutte le questioni riguardanti l’uso dell’uranio impoverito. Forse, al contrario, è più esatto dire che vi sia stata la “massima intrasparenza”. Questa è una questione di carattere molto generale su cui credo sia necessario entrare nel merito, specificando fatti molto concreti.
Voglio citare, dunque, solo qualche aspetto di questa mancanza di trasparenza e di grave disinformazione:
a) Il Ministro della Difesa pro tempore, On. Mattarella, in risposta a interrogazioni parlamentari (Ballaman, Russo Spena), affermò (anche in un Question Time alla Camera) che in Bosnia non era stato usato l’uranio (salvo a dover ammettere, qualche tempo dopo, che in effetti erano stati impiegati dalla NATO oltre 10.000 proiettili);
b) il Procuratore del Tribunale di Bari ha recentemente segnalato (come è apparso anche su Organi di stampa) che il Ministero della Difesa, nonostante varie richieste di informazioni non aveva comunicato tali informazioni alla Procura, che così non aveva potuto redigere gli atti nei tempi previsti;
c) il Ministero della Difesa ha taciuto sul fatto che fin dal 1984 l’Italia era stata informata della necessità di adottare misure di protezione anche per il maneggio a freddo dell’uranio impoverito (e quindi, a maggior ragione, per quanto riguarda i casi di impatto di proiettili con sviluppo di temperature fino ad oltre 3000 gradi). Inoltre non sono state rese note le norme USA emanate in Somalia il 14 ottobre 1993, né quelle emanate da SACEUR il 2 agosto 1996.
L’ANAVAFAF, in relazione ai dati che sono serviti di base alla Commissione Mandelli, e in particolare al numero di missioni (oscillante in modo non giustificato tra 40.000 e 43.000) tra la I e la III Relazione, ha chiesto, fin dall’aprile 2003, al Ministero della Difesa di fornire delle precisazioni in merito. Infatti, non era (e non è) chiaro quali erano i militari considerati come “esposti a rischio” (comunque, in numero molto inferiore rispetto al numero delle missioni). E ciò, a parte il fatto che era esposto, non solo personale in missione, ma anche in “destinazioni fisse” in Italia. E inoltre, occorreva distinguere, in relazione al personale in missione, tra coloro i quali avevano operato fino a circa il 2000 senza misure di protezione, (queste vennero emanate il 22 novembre 1999) e tra i quali, quindi, si potevano individuare soggetti a rischio, e coloro che avevano operato dopo il 2000, i quali, se i Comandi hanno eseguito gli ordini di dotare il personale di misure di protezione, non potevano considerarsi come “soggetti a rischio”.
L’ANAVAFAF ha chiesto queste precisazioni ai sensi della Legge 241/90, la legge sulla trasparenza amministrativa. Il Ministero non ha fornito, contrariamente a quanto previsto dalla legge, alcuna risposta e neppure ha fornito risposte ad una reiterata richiesta analoga del 2005, e neppure ad una richiesta analoga del 2007.
C’è da chiedersi, allora, se si può parlare di trasparenza quando il Ministero non rispetta neppure le leggi della Repubblica Italiana!
Tra i casi di assoluta non trasparenza nel fornire informazioni, ricordo ad esempio, quello di un Maresciallo di stanza a Feltre colpito da un tumore (vedi allegato), di cui l’ANAVAFAF venne a conoscenza perchè era stata fatta una colletta da parte dei commilitoni (cosa tra l’altro, proibita dal regolamento di disciplina, ma ben comprensibile data la drammaticità della situazione), per trovare dei soldi da dare per cure urgenti al commilitone. Il Comando da cui dipendeva il Maresciallo negò, per ben due volte, l’esistenza del caso. Ma, infine, lo dovette ammettere.

Studio SIGNUM e nuovo Comitato di Studi della Difesa
Stiamo ancora attendendo l’esito dello studio SIGNUM, uno studio per cui il Parlamento ha stanziato una somma ingentissima. Lo studio è stato preannunciato come un “avvenimento di importanza mondiale”. E mentre ancora non si conoscono i risultati di questo studio, risultati attesi ormai da lungo tempo, è stato stabilito di instaurare un nuovo Comitato di studio. Da notare che un Comitato di studio è stato istituito anche presso il Ministero della Salute, in seguito all’accordo Stato-Regioni.
Se ciò che si intende fare è uno studio “epidemiologico” del tipo di quello che si volle considerare proprio della Commissione Mandelli (la quale, peraltro, non aveva titolo per poter fare uno studio epidemiologico), occorre prima di cominciare, di poter disporre dei dati relativi al fenomeno in tutta la sua estensione e complessità. Ma già abbiamo visto che anche i dati più recenti (1.702 casi di cui parla il Ministro della Difesa nella sua audizione del 6 dicembre 2007 e 1.991 casi di cui parla il GOI, il Gruppo Operativo Interforze della Sanità Militare), sono pur sempre, dei dati estremamente parziali perchè relativi ai soli militari in servizio, non includenti, tra l’altro, il personale che ha partecipato ad alcune tra le principali missioni all’estero del 1991 e del 1993, e non includenti, altresì, i dati dei poligoni e depositi in Italia, e neppure includenti tutti i casi di patologie al di fuori di quelle tumorali verificatesi, etc., e infine non includenti nè i casi dei civili nè quelli dei militari in congedo.
E fin quando non si dispone di questi dati non si può, certamente, iniziare uno studio epidemiologico su basi serie. Ma, almeno a parere dello scrivente, occorreranno degli anni, anche solo per avere i dati dei Distretti Militari e dei Dipartimenti Marittimi per via dell’enorme lavoro cartaceo di ricerca da svolgere su tutti i documenti che, purtroppo, non sono stati esaminati in questi anni, e ciò solo per quanto riguarda l’ambito militare. Ancora più difficile risulterà avere dei dati circa i civili, su cui per adesso non sappiamo praticamente nulla.
Quindi non si vede come si possa dar vita ad un nuovo Comitato di studi, sempre in attesa, tra l’altro, dei risultati dello studio SIGNUM, senza il rischio di rimandare sine die, una conclusione attendibile circa le cause di ciò che è successo.
Forse, per ora, sarebbe sufficiente cercare di capire, da parte del costituendo Comitato, come è stato possibile che per sei anni non siano state emanate norme di protezione lasciando tutto il personale militare e civile non a conoscenza dei rischi a cui andava incontro. Questo sarebbe già un risultato di rilievo per comprendere il perchè di quanto accaduto.

Questioni di logica
Giustamente, è stato affermato che, anche se ci fosse stata una sola morte per possibile contaminazione da uranio impoverito, ci sarebbe di che preoccuparsi. Ma se le cose stanno così, perchè si afferma che 1.702 casi di malattia (ma ci si limita solo ai tumori) in 11 anni sono, comunque, di meno dei casi attendibili nel campo civile? (e quindi si potrebbe dire, tutto sommato, non preoccupanti?). Il paragone non sembra poggi su basi credibili e sia, quindi, fuorviante. Infatti, non si dispone dei registri dei tumori dei militari, mentre i registri relativi al personale civile sono in misura assolutamente limitata (oltrechè concentrati nel Nord Italia, mentre l’Esercito è prevalentemente del Sud) e quindi inidonei a stabilire delle valutazioni affidabili. Ed inoltre è inaccettabile fare un confronto fra militari e civili, per via della diversità della qualità della salute. I militari sono selezionati in base a visite psico-fisiche di arruolamento e negli anni successivi. Inoltre l’età di impiego operativo è concentrata nella gamma da 20 a 45 anni.
Naturalmente si dimentica il modo del tutto incompleto in cui si è proceduto per la raccolta dei dati ed il fatto che, comunque, il numero di 1.703 si riferisce solo ai militari in servizio escludendo, come sopra detto, tutto il resto (militari in pensione, civili, personale che ha operato in Italia, escludendo le missioni in cui il personale ha operato senza protezione nella Guerra del Golfo del 1991, in Somalia del 1993 e in Bosnia del 1994), prendendo in considerazione le sole patologie tumorali, e non le altre gravi patologie che si sono manifestate.
E’ stato anche detto che “la percentuale dei militari che si è ammalata dopo aver partecipato a missioni è inferiore a quella della popolazione maschile italiana”.
Ma, a parte il fatto che ha partecipato anche una componente femminile non indifferente, soprattutto nelle varie associazioni civili ONG che hanno operato all’estero, ma anche personale della Croce Rossa (cito, ad esempio, il caso di una crocerossina pugliese attualmente ammalata), c’è da tener conto del fatto che il personale esposto è solo una piccola parte di quello coinvolto.
Nell’allegato, compilato in data 18 dicembre 2007, viene svolta una dettagliata analisi della materia.
Un’altra questione di logica è la seguente. Si afferma che il nostro paese non ha usato armi all’uranio e quindi non può aver causato danni legati a queste armi. Ma si finge così di dimenticare che i nostri militari hanno operato in zone colpite da fuoco amico, causato dalle bombe, i proiettili e i missili appartenenti alle Forze Armate della NATO (soprattutto USA e Gran Bretagna).
Altra questione di logica. Si sostiene che le armi all’uranio non sono pericolose. Ma allora, perchè si insiste tanto nell’affermare che l’Italia non impiega armi all’uranio, dato che queste sono molto più efficaci e meno costose? E perchè, sia pure con enorme ritardo, sono state emanate, anche dall’Italia, norme per proteggersi dai pericoli dalle armi all’uranio?
Peraltro, anche l’affermazione che l’Italia non faccia uso di armi all’uranio è quanto meno discutibile, in quanto per testare l’efficacia delle corazzature dei nostri carri armati si devono, pur sempre, eseguire delle sperimentazioni con armi all’uranio che sono le armi più pericolose che questi mezzi possono incontrare.


Falco Accame
Presidente Ana-Vafaf



P.S.
Invio questa lettera con raccomandata per essere sicuro che giunga a destinazione. Ciò in quanto alle numerose precedenti lettere inviate non è pervenuto alcun cenno di ricezione o riscontro.